Al di là, al di qua, o nel cuore delle religioni?
INTERVISTA A PADRE ANTONIO GENTILI
Quale rapporto intercorre fra le grandi tradizioni spirituali dell’umanità e la fede cristiana?
«Al di là delle religioni», suona il titolo originale, a dir vero fuorviante, di un recente pamphlet del Dalai Lama. Per limitarci alla pratica dello yoga e dello zen che è quella più diffusa in Occidente, ci si domanda: dove si colloca? Al di là delle religioni? Nel cuore delle religioni? O al di qua? Comporta, include, esclude, minaccia una fede? Parliamo di una fede, poiché esistono molteplicità di fedi che sono rivendicate non soltanto da tradizioni teiste ma anche non teiste, come il buddhismo. Si pronunciava in tal senso, a esempio, il consigliere spirituale del Dalai Lama Geshe Rabten, in un corso di meditazione gestito, come oggi si direbbe, “bipartisan”, affermando che anche la sua tradizione comportava la fede, la fede che «ciascuno ha dentro di sé qualcosa della natura di Buddha», l’Illuminato o il Risvegliato; in definitiva quel “qualcosa” che, come già sosteneva Platone (Fedro, 253a), ci rende «partecipi della natura divina».
Premettiamo che per “religione” (in latino, relìgio; da rilegare), propriamente parlando, si deve intendere l’esperienza del legame che unisce l’umano con il divino; un’esperienza – è sempre l’etimologia a indicarcelo – che implica anche una rilettura (latino: relègere, rileggere) del proprio vissuto e degli eventi che costellano l’esistenza; una più profonda scelta di vita (latino: re-elìgere, scegliere di nuovo) e infine la coltivazione di un’attitudine improntata a “devozione” verso la Divinità (latino: rèligens, contrapposto a nèligens, negligente … ). Quest’insieme di aspetti ci dice come sia limitativo e, appunto, fuorviante ridurre la “religione” all’assetto istituzionale, dogmatico, morale, disciplinare e cultuale che l’accompagna, ne costituisce l’involucro e traduce l’ispirazione di fondo in un concreto stile di vita, segnando con questo l’appartenenza a una determinata “confessione” o tradizione spirituale. Se dunque per religione intendiamo quanto sopra, tutte le discipline tendenti alla promozione delle facoltà spirituali insite nella nostra natura e in ultima analisi finalizzate all’autorealizzazione (Jung direbbe all’”individuazione”), si collocano al di qua della religione, sul versante umano (fanno cioè appello al bagaglio di doti e di potenzialità elargite dal Creatore alle sue creature), e con ciò stesso favoriscono, o dovrebbero favorire, l’apertura al divino. Un corretto rapporto con il divino non può prescindere da un corretto rapporto con l’umano, pur costituendo l’apertura al divino un salto verso l’Oltre, un tufo nella Trascendenza, una “Grazia”: alle quali cose diamo il nome di “fede”.
Essa alberga nel cuore umano, anche in modo implicito; se diviene esplicita e si sviluppa secondo la sua profonda natura, porterà via via alla «percezione di quella forza arcana, presente nella vita dell’umanità e nella sua storia», che si traduce nel «riconoscimento della Divinità suprema o anche della sua Paternità» (Concilio Vaticano Il, Nostra aetate, 2) e infine approda all’accoglienza del dono della salvezza operata da Cristo Gesù. Salvezza elargita ai suoi seguaci e resa accessibile a ogni uomo di buona volontà, per opera dello Spirito santo, nel «modo che Dio conosce» – afferma il Vaticano II (Gaudium et spes, 22). Il cristiano poi non dimentica – è sempre il Concilio a ricordarcelo e fu l’allora monsignor Karol Wojtyla a suggerirlo – che «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (Ivi) e il suo riscatto dalla condizione di finitudine e di fallibilità da cui è segnato.
Vale anche l’opposto di quanto si è detto, e cioè che la “fede”, se autentica e consapevole, contribuisce non poco a sorreggere e potenziare l’umano, posto che umano e divino non si escludono, ma cooperino in feconda sinergia. Lo stesso yoga ne offre testimonianza quando, dopo aver sollecitato il praticante a raggiungere il silenzio mentale e la spogliazione dell’ego, gli raccomanda il confidente abbandono in Dio, l’Ishvarapranidhana… Un “Dio”, se si vuole, concepito come sostegno forse più che come approdo, ma pur sempre un “Dio”: il Dio degli yogi. Si sarà già notato, tra le righe, che i “postulati” dello voga: silenzio, rinuncia all’io e apertura a Dio, sono le premesse e i pilastri stessi di un’autentica religiosità! Aspetti che i cristiani possono contemplare nella Vergine Maria, la Donna dell’ascolto silenzioso, dell’umiltà radicale e dell’adesione incondizionata al suo Signore.
Cosa possiamo apprendere dallo yoga o dallo zen?
Come si può dedurre da quanto sopra, lo yoga e lo zen non sono una religione, ma neppure la escludono o vi si oppongono. Una corretta esperienza, poi, ci dice che tali discipline possono essere di giovamento alla stessa pratica cristiana – come riconosceva la Lettera della Congregazione per la dottrina della fede del 1989 su “Alcuni aspetti della meditazione cristiana” (n. 28) – al punto da considerarle, se bene intese e praticate, alla stregua di quei “preamboli delle fede” di cui parlano i teologi. Basta prendere in considerazione l’ottuplice sentiero dello yoga tracciato da Patañjali. Sono sufficienti rapidi cenni, esso insegna:
– Le “astensioni” (i comandamenti biblici);
– Le “osservanze” che si traducono in integrità di vita, ascesi, frequentazione delle Scritture sacre, ecc.;
– L’armonioso rapporto con il corpo facendo corrispondere esterno a interno, con il conseguente ricupero della gestualità sacrale (e qui si potrebbe aprire il discorso, non ignoto alla tradizione cristiana, sull’impalcatura mistica della persona che gravita attorno a dei centri di energia vitale – chakra nel linguaggio sanscrito – a cominciare dalla sommità del capo, la fronte, la bocca e il cuore, le viscere … Non sono questi i “luoghi” che attiviamo durante la messa? E chi non ricorda l’antica preghiera del Messale con cui il sacerdote chiedeva che Corpo e Sangue del Signore «aderissero alle sue viscere»?;
-Il rientro dei sensi esterni che conduce al risveglio dei “sensi interiori” o spirituali;
– Infine gli ultimi tre gradini che si traducono nella capacità di raccoglimento, di meditazione e di quella ricentratura interiore che prelude all’apertura verso Dio. Già gli autori medievali sostenevano che, «se vogliamo penetrare nelle profondità divine, dobbiamo prima rivolgerci alle profondità del nostro spirito» (Riccardo di San Vittore)… E in ogni caso va ricordato che quel Dio che ci trascende, è pure, al dire di sant’Agostino, «più intimo del nostro intimo».
Lo yoga e lo zen possono migliorare la qualità della vita?
Anche la più elevata delle discipline, se praticata in modo riduttivo, può rivelarsi più di danno che di vantaggio. Il rischio che incombe sullo yoga e sullo zen, come su ogni altra disciplina e sulle stesse religioni, cristiana non esclusa, è quello di farne una pratica fine a se stessa (tra il superstizioso e l’idolatrico) e non orientata alla crescita integrale della persona e al suo perfezionamento morale. Può essere finalizzata a pura ginnastica o a ricerca di puro benessere fisico. Nell’ipotesi peggiore, può ripiegarci su noi stessi in un narcisismo che apre la porta alle insidie del Maligno – non per nulla gli esorcisti possono dimostrare con la loro casistica che questo si verifica in non poche persone… con effetti devastanti sul loro equilibrio psichico prima ancora che negativi per la loro fede. Di qui la diffidenza, negli ambienti ecclesiastici, verso tutte le pratiche che non abbiano una chiara impronta confessionale, una sorta di “imprimatur”, si tratta però, in non pochi casi, di un “pre-giudizio”, destinato a scomparire nel contesto interculturale e interreligioso della nostra epoca e secondo uno spirito autenticamente “cattolico” e cioè universalistico.
Ciò premesso, è fuori di dubbio che tutte le grandi tradizioni sapienziali e spirituali dell’umanità – che il Concilio Vaticano Il invita ad accogliere «laete et reverenter (con letizia e rispetto)», in quanto portatrici dei «semi del Verbo» (Ad Gentes, 11), e a vagliare alla luce del Vangelo – sono di per sé finalizzate a promuovere un’autentica qualità della vita e quindi ad alimentare nel cuore dell’uomo le grandi virtù della pace, della gioia, dell’amore, della compassione e della speranza, la quale ultima proietta l’esistenza verso un Oltre di pienezza e di beatitudine imperiture. Speranza che, così è stato detto, costituisce la virtù dei “tempi difficili”, come è il nostro.
Dialogo interculturale e dialogo interreligioso
Esistono diverse forme di dialogo:
- Il dialogo della vita, che si ha quando le persone si sforzano di vivere con lo spirito aperto e pronto a farsi prossimo, condividendo le loro gioie e le loro pene, i loro problemi e le loro preoccupazioni umane;
- Il dialogo dell’azione, nel quale i cristiani e gli altri credenti collaborano per lo sviluppo integrale e per la liberazione del loro prossimo;
- Il dialogo dello scambio teologico, nel quale gli specialisti cercano di approfondire la propria comprensione delle loro rispettive eredità spirituali e di apprezzare ciascuno i valori spirituali dell’altro;
- Il dialogo dell’esperienza religiosa, nel quale le persone, radicate nelle loro esperienze religiose condividono le loro ricchezze spirituali, per esempio nel campo della preghiera e della contemplazione, della fede e dei modi di ricercare Dio o l’Assoluto» (Consiglio pontificio per il dialogo interreligioso, 1991, n. 42).